Experimental and art films

LA GIOIA DI SPERIMENTARE (TRA CORPI CHE DANZANO E PERFORMER CHE CANTANO)

 Nel sottobosco del cinema sperimentale breve c’è davvero di tutto: suggestioni per immagini, commistioni di linguaggi, patchwork ed intrecci trans-mediali.

Il cinema sperimentale e la declinazione musicale performativa scelta, si addicono in modo particolarmente calzante all’approccio ai film incentrato sulla libertà di pensiero tanto perseguito quest’anno (cinema libre è il sottotitolo di questa edizione), alla ricerca di film maker internazionali mossi dall’urgenza di raccontare senza eccessivi vincoli e condizionamenti. La libertà creativa nelle idee e nella prassi filmica trova nelle opere sperimentali uno scenario “terra di nessuno” in cui convivono proposte difformi e un po’ azzardate. Non a caso la connotazione “libre” rimanda a una idea di cinema libero e spregiudicato, proteso verso strade poco battute e dalla vocazione audace, coraggiosa e senz’altro vivace. Tante le storie – nel caleidoscopio delle proposte del Festival atte alla scoperta – tanti gli stili, tanti i modelli spettatoriali e produttivi.

Ci sono racconti del privato, storie di famiglia che tentano di aprirsi al mondo, come Still life with woman, Tea and Letter e A Family Portrait. Il primo, un'animazione in stop motion, è una vera e propria finestra sul passato, proprio come lo è una fotografia, anche se il confine passato/presente non sempre è così netto. Opera omaggio al cinema capace di creare illusioni temporali, questo riuscito ritratto femminile ispirato alla madre del regista, storica dell’arte ed appassionata di nature morte, è una sorta di invito a (ri)pensare il rapporto con il tempo. Il secondo è un’opera indipendente e fotografica, che si approccia con uno sguardo quasi intimo al materiale d’archivio. Ricordi (di chi ora è lontano), tra volti e strade percorse. Una città che fa del suo meglio, proprio come questo lavoro, pedinando angoli, scegliendo dettagli non casuali e rievocando lontane memorie. Incentrato sulla reminiscenza di un passato atavico e condiviso è anche l’originale Flow of life che, in senso ancor più universale, riflette– tramite incisioni immagine per immagine fatte su una pellicola 35 mm ricoperta di foglia d’oro - sulle origini della vita dell’uomo e degli animali su questa terra. Il risultato è un esperimento affascinante e poetico sulla natura corale di ogni relazione (in primis quella, inaspettata, tra l’uomo e il cavallo), che celebra, ragionando sugli albori della storia, anche la minuzia della tecnica e il ritmo incalzante altrettanto inaspettato per una ricostruzione (forse antiteticamente) ancestrale.

Ritroviamo gli animali quale spunto tematico anche al centro di diverse ulteriori proposte in Concorso: c’è il volatile protagonista del volo pindarico di Night for the last one (opera-installazione che insegue il librare notturno di un paio d’ali fino al misterioso epilogo, che celebra sapientemente l’estetica dello split screen in una poetica ricognizione dalla fotografia ordinata e dal bianco e nero quasi noir) e c’è l’uccello predatore che si avventura a caccia di grilli in Nature attack in una impresa più complicata del previsto. Quest’ultima è una favola ecologica intrisa di realismo (tra insetti, piante, folta boscaglia e altri animali, quasi a percepire e a “toccare” visivamente” la foresta) e al contempo caratterizzata da una ferrea volontà di rappresentazione con una solida messa in scena, capace di riecheggiare in senso metaforico a ogni conflitto o guerra. Ci sono infine gli animali selvaggi che popolano l’onirica sfilata di The peacable kingdom, invadendo gli spazi architettonici e domestici solitamente destinati all’uomo con assoluta disinvoltura. Così, in quest’ultimo lavoro, giraffe, elefanti, maiali, mucche, rinoceronti, asini e capre danno vita a creative intersezioni tra sculture, virtuali, fisiche e “renderizzate”, riflettendo, tra suggestive animazioni ed effetti video, sull’antitesi “predatori/prede” grazie alla manipolazione artistica e digitale. Gli effetti della rivoluzione digitale e il suo profetizzato ed inesorabile declino costituiscono l’input anche di Skinned, che prende le mosse ipotizzando proprio che un terribile virus colpisca improvvisamente Internet. Gli umani si ritrovano così fra le macerie di un mondo virtuale, quale agognato simulacro del reale: cosa accadrà a chi rimane nel dover fare i conti con questa nuova pelle post digitale? Cinque donne riflettono, mentre i ricordi personali pesano, tra elucubrazioni “social” e non e pensieri filosofici addolorati e increduli.

La riflessione sulla natura del mezzo e del linguaggio cinematografico è un leitmotiv che caratterizza molti cortometraggi. In Light Leak ci si interroga su ottica e memoria (la luce informa ed è un segnale più duraturo del ricordo): un osservatore solitario, che vive rinchiuso in un appartamento vuoto, studia e guarda il mondo esterno (che diventa sempre più irreale ed irraggiungibile) attraverso diapositive, strani sistemi di illuminazione un po’ arcaici e puntine luminose della camera oscura che strisciano lungo la parete. L’esito finale è un piccolo saggio sul tempo e sul ricordo che possono perdere significato, con sprazzi meta-cinematografici (la stanza chiusa diventa così l’ennesimo luogo di proiezione “interno/esterno” di immagini e di luce) e con rimandi all’immaginario di fantascienza. La tela di Penelope è un’opera sinestetica ambientata all’interno di un lanificio in cui suono, colore e movimento convergono in un flusso dinamico emozionale alla stregua di una partitura musicale. Le analogie con la musica si sprecano: da un lato il ritmo generato dal movimento delle macchine al lavoro riecheggia quello degli strumenti musicali coinvolti a concertare assieme in una sinfonia, dall’altro le immagini in movimento della fabbrica in azione definiscono la produzione attraverso le stesse tracce visive fotogramma per fotogramma proprio come accade nella musica che si (auto) rappresenta anche mediante i segni grafici su un pentagramma.  Il rapporto con le altre arti è infine al centro del documentario Pes’re (realizzato per la candidatura di Pesaro a Capitale della Cultura nel 2024) che mostra il legame profondo degli artisti pesaresi Ben Zeno, Giuliano Del Sorbo e Mattia Tommasoli con il territorio cittadino; così come caratterizza The lovers of Avignon, traduzione per immagini filmiche del cubismo pittorico. Un quadro celeberrimo diventa in questo caso una sequenza reale di quadri (frames) in movimento, nonché una allegoria del cubismo quale simbolo concettuale che funge da filtro e da muro di emozioni. In nome della contaminazione (e del travaso) tra diversi linguaggi artistici è stata pensata e realizzata anche la videopoesia Thirteen ways of looking at a blackbird, tratta dall’omonimo componimento in versi di Steven; adattamento fantasioso sulla potenza delle parole, dove quest’ultime – mediante intime evocazioni della natura realizzate grazie alla combinazione tra immagini del reale, inserti animati e disegni - si fanno sceneggiatura senza tuttavia mai cadere nel didascalico.

 “Il cinema è più vicino alla musica che alla pittura, perché è fatto non di immagini, ma di inquadrature dove dentro scorre il tempo, come nella musica.” Cit. Eric Rohmer

“Danzavano come quella coppia di generici che il regista mette nel fondo della sala, sotto un arco, per dare l’aria di una festa intima, ma già preda di una noia mondana, che si nutre di sé stessa nelle immagini più comuni e imitate.” Cit. Ennio Flaiano

“Prima balla. Poi pensa, è l’ordine naturale.” Cit. Samuel Beckett

 Se fare cinema “libre” significa sfuggire alle regole, piegandole al proprio estro artistico mentre sperimentare vuol dire esplorare e valorizzare tematiche o condizioni dell’essere umano legate alle diversità insite nella società contemporanea, dare spazio ai film musicali, alla video danza e ai videoclip si traduce allora in una scelta coerente e vivida, orientata verso linguaggi di ibridazione (musica, video e corporeità) esuberanti, dinamici e talvolta un po’ intrepidi.

Fra gli spunti tematici ricorrenti in questi lavori in Concorso spicca senza dubbio il legame con il corpo, rappresentato al cinema nelle sue infinite declinazioni: il corpo fisico in movimento attraverso la danza mostrato quale veicolo di significati e il corpo dell’artista (cantante, danzatore o performer) in presenza (o in absentia) a legittimare l’opera filmica che diventa performance.  Absent presence è un viaggio surreale di un corpo sconnesso che cerca disperatamente di ritrovarsi tra gli spazi di una casa vuota. Un gioco di percezioni tra riflessi e ombre distorte che porta a interrogarci su ciò che è davvero reale. For the skeptical è un esperimento video ibrido e militante; un espressivo patchwork che da un lato mescola molto bene linguaggi diversi (teatro, musica hip-hop e frames di filmini di archivio), dall’altro stimola volutamente il pensiero critico ragionato (post Covid e complottismi di ogni sorta) sulla disinformazione collettiva, auspicando reazioni da parte di tante menti e corpi (attraverso azioni e cambiamenti sottesi) pensanti e finalmente consapevoli. Il protagonista di Resurrection under the Ocean supera invece i limiti dell’esistenza terrena: il suo corpo si disperde in una profonda caduta oceanica e la sua resurrezione simbolica è quella di un uomo a cui viene data la possibilità di salvarsi e di rinascere. Il ritorno alla vita di un corpo indifeso, in un film musicale e squisitamente coreografico dalla perfetta armonia tra suono e immagine, rende quasi universale la portata del racconto, trasformando la sua storia in tante storie diverse, ma al contempo tutte off limits.

La danza è la protagonista indiscussa di De-escatology che mette in scena la rappresentazione fisica della claustrofobia collettiva post Covid 19 e del desiderio di liberazione conseguente attraverso i movimenti dei corpi imballati, incellofanati e scattosi che enfatizzano il tatto, riscoprendo spazi preziosi dopo la sofferta mancanza di contatti. Il corto è una performance liberatoria che esplora, una movenza dopo l’altra, la graduale riduzione dell’obbligo alla stasi e i suoi effetti psicologici. Anche Malamore è una danza, una sorta di passo a due sull’incapacità di vedere sé stessi e l’altro, fino a perdersi: è un ballo pseudo-sinestetico di specchi, di corpi e di distorsioni, che racconta quando l’amore diventa trappola, con le inquadrature che seguono efficacemente il ritmo della musica. Particolarmente riuscito l’epilogo che, alla stregua dei movimenti congiunti dei due corpi avvinti l’uno all’altro, si fa ben più incalzante. Persino Move è un film di danza vero e proprio, che gioca con il tempo, con le forme e con il movimento: i suoi colori e le sue tonalità riecheggiano l’arte di Mirò. Opera singolare, che si (auto)genera e riflette, attraverso guizzi dinamico-cromatici e corpi disegnati con tratti stilizzati, sull’essenza tout court del movimento.

Tre sono infine i videoclip in Concorso: Le grand murmure, Spokelsesby e Tulipomania. You had to be there. Il primo, Le grand murmure, è un video musicale della cantante francese Jeanne Laforest dalla location sacra (una chiesa invasa da candele), dal ritmo ipnotico e da un’inquietante atmosfera gotica. Il nero domina (siamo immersi in un buio interrotto solo da spot di luci disseminate sullo sfondo volutamente fuori fuoco), guidando tuttavia le rabdomanti movenze dell’artista, nonché il suo corpo solo apparentemente incerto. Spokelsesby è il video musicale del singolo (dal titolo identico) del norvegese Hasse Farmen incentrato sulla dicotomia tra la solitudine di oggi e le connessioni conclamate dai corpi distanti ma vicini tipiche della società delle immagini e della comunicazione mediata. A proposito del lavoro musicale Tulipomania. You had to be there - primo videoclip del nuovo album dei Tulipomania in uscita dal titolo Dreaming of sleep – dobbiamo chiederci cosa accade se in una espressione artistica osservatore ed osservato si scambiano di posto e di ruolo. La risposta a questo interrogativo meta-testuale si cela in un'animazione originale, creata fotogramma per fotogramma che include la sincronizzazione labiale (con i corpi cantanti rigorosamente in absentia, ad eccezion fatta, forse, a mo’ di sineddoche, di alcuni stralci, stropicciati ed incerti di primissimi piani di corpi). I filmati dall’estetica vintage e la ricostruzione di immagini e parole attraverso migliaia di fogli di carta bianca o nera possono senz’altro aiutare fan e spettatori nel provare ad azzardare una risposta.

 

I FILM

Experimental and art film

 A family portrait, di Shubham Sharma, 2022, Germania/ India

 Flow of life,di Solweig von Kleist, 2022, Francia

 La tela di Penelope, di Marco De Biasi, 2022, Italia

 Light Leak, di Nate Dorr, 2021, Stati Uniti

 Nature attack, di Erik Sémashkin, 2023, Ucraina/Francia

Night for a lost one, di Nenad Obrad Nedeljkov, 2023, Serbia

 Pes're, di Elia Mazzini, 2022, Italia

 Skinned, di Mike Hoolboom, 2020, Canada

 Still Life with Woman, Tea and Letter, di Tess Martin, 2022, Olanda

 The lovers of Avignon, di Manuel Fernández Ferro, 2023, Spagna

 The Peaceable Kingdom, di Brit Bunkley, 2023, Nuova Zelanda/ Spagna

 Thirteen Ways of Looking at a Blackbird, di Pamela Falkenberg, Jack Cochran, 2020, Stati Uniti

Music Dance and Performing Arts

 Absent presence, di Giorgia Ponticello, 2023, Italia

 De-Eschatology, di Charly Santagado, Eriel Santagado, 2020, Stati Uniti

 For the skeptical, di Dawn Westlake, 2022, Stati Uniti

 Le grand murmure, di Antony Boudreau Savoie, 2023, Canada

 Malamore, di Pierluigi Braca, 2022, Italia

 Move, di Bernardo Alevato, 2023, Brasile

 Resurrection under the Ocean, di Serkan Aktaş, 2021, Turchia

 Spokelsesby, di Gianmarco Donaggio, 2023, Norvegia/Italia

 Tulipomania:you had to be there, di Cheryl Gelover, Tom Murray, 2022, Stati Uniti


Oltre i limiti

CORPI, VOLTI E STORIE OFF LIMITS

 

E’ molto difficile raccontare la disabilità senza retorica.

La sfida più grande resta quella di superare il topos narrativo (e la chiave interpretativa) della rivalsa e del buonismo: anche al cinema i cliché si sprecano e le storie raccontate sono spesso vincolate a un pattern visto e stravisto di storytelling.

Il protagonista/eroe vive la propria disabilità sempre in cerca del beneamato riscatto e il suo viaggio diventa inevitabilmente un superamento di prove, nonostante i limiti fisici (o psichici) di una situazione di svantaggio e in vista di una vittoria finale resa ancor più incisiva dalla presenza degli stessi limiti iniziali.

Se da un lato questo modello narrativo di rappresentazione della disabilità appare giustificato e calzante in seno a una volontà di realismo (le storie di difficoltà possono essere oggettivamente complicate) e al contempo frutto della potenza insita nel racconto del drammatico, dall’altro lato può rivelarsi senza dubbio più interessante spostare il punto di focalizzazione delle storie stesse.

In altri termini raccontare le persone con i loro limiti, sfidare l’estetica del “nonostante” la disabilità e lasciare che i protagonisti si raccontino, attraverso la forza delle immagini filmiche, mettendo (inevitabilmente) in scena anche le loro mille difficoltà, quotidiane o straordinarie che siano e dando voce a corpi e volti che – una volta scesi dal piedistallo del patetismo e della facile roboante inspirazione – semplicemente provano ad essere liberi.

Liberi di natura, nonché affrancati dalle etichettature sociali, proprio come i volti e i corpi protagonisti di molti cortometraggi in Concorso alla settima edizione del MalatestaShort Film Festival che spesso hanno fatto delle proprie disabilità fisiche e mentali un vero e proprio strumento per andare oltre i propri limiti.

Lo ha fatto Divynashu Ganatra, il protagonista del documentario I run into chairs. E’ stato il primo cieco indiano a prendere da solo un aereo e a diventare un pilota. Nel 2016 ha pedalato in tandem lungo la pista più alta del mondo e nel 2018 ha scalato il Kilimangiaro. Ma paradossalmente – a dispetto dell’eccezionalità di tutte queste grandi sfide che sembrerebbero proprio, inanellate e mostrate una in fila all’altra, celebrare, ancora una volta, il mito della rivalsa sociale – il superamento dei limiti fisici lo ha portato (oltre che in cima al mondo) soprattutto dove forse non si sarebbe mai aspettato. Lo senti parlare e capisci davvero che superare il limite per lui ha significato non avvertire più alcun limite nella sua testa finalmente libera. Non a caso oggi ammette che una volta il suo mondo è cambiato inaspettatamente a 19 anni svegliandosi cieco, ma oggi a 43 anni si chiede che bisogno c’è di riavere un paio d’occhi. Il suo vero limite è stato – glaucoma a parte - l'inevitabile stigma sociale che lo vedeva stereotipato ad intrecciare cesti di giunco o chiuso in casa a costruire mobili di canna. Ecco perché il suo corpo ha scelto l’avventura come stile di vita in risposta a una stasi codificata, acquisendo una disinvoltura con sé stesso e con la propria cecità che appare meravigliosamente disarmante.

Ha sfidato i propri limiti anche il (piccolo) e prezioso corpo del brasiliano Chico, la cui storia è raccontata in Big Bang. Dal basso dei suoi pochi centimetri in altezza, sceglie di vivere e di guadagnarsi da vivere con un mestiere reso possibile proprio grazie al suo difetto di statura. La sua forza sta tutta nel cercare di resistere – tra soluzioni creative nella vita di tutti i giorni e vitalità – ad un sistema che lo vorrebbe socialmente ai margini e a cui lui risponde con una consapevole (seppur a tratti sofferta) ricerca di sé. Saranno gli altri allora, se davvero sinceri, a schivare il limite e ad abbassarsi per avvicinarsi a lui. 

La cecità è ancora una volta il limite fisico su cui è incentrato il documentario Dream of glass: cercherà di superarlo Manuele, un ragazzo non vedente che intraprende un viaggio alla scoperta dell’isola di Ventotene e che, grazie all’esperienza suggestiva di un laboratorio sensoriale svolto tra le classi di una scuola dell’isola, entrerà in contatto con un gruppo di ragazzi aiutandoli nella sensibilizzazione nei confronti della perdita della vista attraverso il gioco e l’immedesimazione ludica. Se tuttavia da un lato in questo caso il superamento di un limite fisico sembra potersi compiere con la conoscenza e con la voglia di “mettersi nei panni dell’altro”, d’altro canto appare utopico e poco realistico ogni sincero tentativo d’identificazione (siamo sicuri che è davvero possibile capire a fondo la sensorialità di una persona non vedente per chi non ha un difetto di vista?). Ecco allora che il limite di Manuele diventa sinceramente anche altro: l’esplorazione delle onde e della natura selvaggia lo condurranno così a riconoscersi nella sincerità che contraddistingue la dimensione sociale di una piccola comunità di mare autentica e lontana anni luce dal pietismo facile.

Un corpo fisicamente imperfetto, quasi ripiegato su sé stesso, muto ed immobile è sorvegliato ed accudito dal corpo forte, scapigliato e sfiancato, avvolto da variopinte vestaglie casalinghe del fratello care giver: sono i due protagonisti del corto drammatico Soluzione fisiologica, nonché la messa in scena e il racconto di un vero e proprio atto d’amore incondizionato. Superare i propri limiti diventa una lotta per la sopravvivenza quotidiana, che invade e pervade tutti gli spazi possibili: il corpo fisico, fagocitato da una spasticità dolorosa e condannato alla stasi perenne, l’universo mentale bloccato in un avulso eterno presente della disabilità psichica ed intellettiva, ed infine (ma soprattutto) lo spazio emotivo, non privo di pulsioni fisiologiche e carnali, ma al contempo alienato e distaccato. Superare tutto questo diventa possibile solo attraverso un mezzo potente come l’amore fraterno, talvolta folle come solo certi affetti assoluti e pieni possono diventare.

I corpi di tre donne temprati e trasformati rispettivamente dallo skateboard, dal surf e dal jiujitsu sono al centro del racconto di Sobre elas, tre storie femminili di scelte esistenziali radicali: spingersi oltre, stravolgere tutto quello che una tradizione di genere aveva previsto per le proprie strade passa anche attraverso una liberazione dei corpi. Il superamento dei ruoli sociali (da mogli a madri e lavoratrici), di certo avvertiti come limitanti diventa una vera e propria dichiarazione d’intenti. Tre corpi si fanno così un corpo unico, un unicum femminile corale che va oltre la singolarità celebrando alleanze e sostegno reciproco in nome di una liberazione muliebre collettiva.

Vuole superare di certo (e spasmodicamente, come solo l’adolescenza riesce a far credere possibile) i limiti del proprio corpo maschile, Thomas che si sente femmina e che vaga in cerca di sé stesso/a tra l’asfalto e i palazzoni anonimi della periferia di Milano, la cui giovane ed incerta fisicità si ancora curiosa – e in divenire – alla macchina da presa nel cortometraggio sull’identità di genere Paramore.

Supera infine i limiti di un’esistenza fisica e terrena il protagonista di Resurrection under the Ocean, storia quasi metafisica dove il corpo si disperde in una profonda caduta nell’oceano. La resurrezione simbolica è quella di uomo che – dopo la propria morte- può abbracciare, non senza sofferenza, la possibilità di una rinascita. Il suo diventa davvero un viaggio off limits che, a partire dal richiamo della balena (quale emblema della vitalità), lo riporterà dalle acque in superficie e rappresenterà una seconda possibilità, trasfigurando quasi, a mo’ di emblema – la storia un uomo in difficoltà e indifeso, in tante storie, diverse ma simili.

Tutti questi viaggi sono allora accomunati (volti, corpi e storie) da esperienze singolari, potenti non tanto per le difficoltà incontrate lungo un pezzo di strada, quanto per la forza di opporsi – in tanti modi diversi, creativi, dolorosi, a volte originali – alle sentenze edificanti (a suon di “la tua vita è finita”) spesso tuonate dalla società stessa che fabbrica limiti, mossa dall’impulso endemico di categorizzare tutto e tutti.

Spesso non basta raccontare la disabilità per sensibilizzare: una sensibilizzazione autentica ha bisogno di una riformulazione delle focalizzazioni del racconto che sposti l’attenzione dalla enfatizzazione delle differenze al superamento delle stesse, trasformando così i racconti dei limiti e delle difficoltà, in racconti umani, tra difficoltà e limiti, che qualche volta vengono superati, Una scelta questa che non significa negare l’ovvio (il rispetto per la verità del racconto vuol dire non nebulizzare i dolori, gli inciampi, le cadute, la marginalizzazione), ma che certo permette di non ridurre universi al racconto di un problema.

Molto spesso, come abbiamo visto, sono le barriere attitudinali e sociali ad isolare più di ogni altra cosa. La vera rivoluzione consiste nel recuperare (liberandole) le persone e i loro variegati, complicati ed affascinanti mondi.

I FILM 

 

Dream of glass, di Andrea Bancone, 2022, Italia

I Run Into Chairs, di Barnali Ray Shukla, 2023, India

Paramore, di Andrea Lamedica, Francesco Mastroleo, 2023, Italia

Soluzione fisiologica, di Luca Maria Piccolo, 2023, Italia

Sobre elas, di Bruna Arcangelo, 2022, Brasile

Big Bang, di Carlos Segundo, 2022, Francia-Brasile

Resurrection under the Ocean, di Serkan Aktaş, 2021, Turchia


Memoria libre

MEMORIA LIBRE: LA FORZA DEL RICORDO MESSO IN SCENA

“Siamo fatti di memoria, siamo insieme infanzia, adolescenza, vecchiaia e maturità”
G. Deleuze, L’Immagine-Tempo

 

Come si racconta il ricordo per immagini? Come è possibile evocare un ricordo e, al tempo stesso, anche il futuro proiettando immagini del passato?
Queste sono solo un paio fra le tante domande su cui, indirettamente, spesso attraverso voli pindarici inaspettati, ci siamo trovati a riflettere durante la selezione dei documentari in Concorso in questa settima edizione del MalatestaShort Film Festival.
La risposta non è di certo (e fortunatamente) univoca: la vocazione all’excursus attraversa il Festival fin dalla sua prima edizione e la scoperta di suggestioni espressive diverse ha caratterizzato anche la sottocategoria del cinema del reale attraverso una serie interessante di variazioni di genere. Tuttavia, pur nella varietà delle proposte, i documentari hanno evidenziato una sollecitazione condivisa, una sorta di tema fil rouge che accomuna molti corti doc scelti: la rielaborazione di ricordi personali e di memorie collettive.
Un’urgenza, quella di raccontare e di ripercorrere i ricordi, che può essere letta come una risposta - in un contesto culturale e mediatico dai linguaggi molteplici - alla perenne ed incessante evoluzione in termini di scenari condivisi e di relazioni sociali ed affettive. Il cinema breve declina questa tendenza in infinite possibilità espressive, sperimentazioni e forme di rappresentazione, mettendo in scena la continua metamorfosi dei tempi, compresi le ibridazioni di linguaggi e i nuovi ritmi accelerati di esperienze e narrazioni. Così che tornare indietro, (ri)vivere e (ri)raccontare può diventare una reazione critica e consapevole.
A volte può anche essere dolorosa. Il film Can’t wait for you to come di Tomaž Grom, contrabbassista e musicista sperimentale, è una toccante espressione artistica che riempie un vuoto morto del passato con suoni e immagini immagazzinati nel tempo e nello spazio. Se nell’amore incondizionato la memoria è il “vuoto” che ci tiene in contatto con i nostri cari, la perdita di un figlio diventa un vuoto troppo grande da sopportare. E allora le immagini e le fotografie diventano dei tempi apparentemente immobili, ma che ora sono in grado di scorrere all’indietro, dando vita a un film come questo. Un insieme di ricordi, di attimi di eterno presente sparpagliati e consumati per casa assieme ai filmini di famiglia. La quotidianità congelata rielabora un passato intimo lacerante; di fronte alla sfida di affrontare una grave perdita sceglie di “usare” radicalmente immagini e suoni attraverso una serie infinita e discrepante di memorie private eternamente presenti.
Il ricordo di un passato macchiato dalla violenza può portare, proprio come accade a Abdi, designer di mobili di origini somale, alla ricerca di sé. Nel documentario di Douwe Dijkstra Neighbour Abdi, con l’aiuto del vicino di casa filmaker, il protagonista ripercorre alcuni episodi della sua vita, tra guerra e criminalità, in uno studio pieno zeppo di effetti speciali. La ricostruzione di un trascorso tragico – al contempo storia di un individuo e di un paese lontano – viene stemperato grazie alla cornice del meta-cinema, nonché al disvelamento della messa in scena. Rielaborare la memoria (intima e condivisa) qui significa mescolare sapientemente i registri del racconto, sapendo rintracciare (anche) la leggerezza nel dolore e spostando l’attenzione sul processo creativo in fieri del documentario stesso.
Comunisti (diretto da Davide Crudetti) è un film su uno spaesamento personale e collettivo tra la Storia raccontata e il mondo che viviamo oggi. I ricordi si fanno eredità politica, ma anche e soprattutto zavorra emotiva sigillata in una scatola piena di vecchie VHS e fotografie di famiglia. Seguendo la linea cronologica del sogno comunista, attraverso gli archivi pubblici e privati che corrono lungo quasi cinque decenni di storia, il passato diventa l’insieme dei pezzi rimasti sulle spalle, schegge di un sogno ideale che, in un mondo che va esattamente dall’altra parte, fanno sentire inavvertitamente fuori posto. Il corto, che strizza furbetto l’occhio al miglior Nanni Moretti sul tema (siamo dalle parti di Aprile e un po’ di Caro Diario), è una riflessione critica (ma leggera) sul passato e sul futuro personale e collettivo in cerca di una identità politica tutta da (ri)scoprire.
Brave di Vilmarc Val è un bellissimo viaggio spirituale scandito da riti vudù, richiami materni e dettagli legati alla celebrazione della morte. Il passato qui è la dimensione quasi mitica delle origini, legittimata da un registro antropologico-etnografico. Una sorta di reiterato presente che oscilla costantemente tra materialità e suggestioni invisibili, capace di generare una storyline coinvolgente (quella delle Mambo, sacerdotesse vudù haitiane, che vengono celebrate dalle giovani bambine alla loro morte) che fa percepire su più dimensioni quel sottile mondo tra la vita e la morte. Il passato celebrato diventa così questo interstizio quasi magico della fine, che apre tuttavia a nuovi inizi, nonché ad auspicati spiriti di rinascita.
Abscesso di Bianca Iatallese è la storia di João, un giovane della comunità di Vila Heliópolis, la più grande favela di San Paolo. La sua vita scorre lenta, intessuta di attimi-macigni, giorno dopo giorno, ora dopo ora, mentre raccoglie rifiuti e cartacce durante la pandemia Covid. Riflessione realista su un passato recente collettivo complicato e difficile, non privo di strascichi (dall’alienazione alla crisi economica) nel presente di oggi.

Quello che emerge – nel quadro d’insieme, oltre i singoli corti – è la volontà di riflessione su ciò che è stato, di certo nel tentativo di riscoprire dettagli – che per quanto dolorosi – alle volte possano essere gli ultimi appigli per capire e per riassaporare, a dispetto di una temporalità altrimenti frenetica ed inafferrabile. Ripescare il passato diviene allora l’unica scelta possibile.

Sara Fiori

 

I FILM

Brave, di Wilmarc Val, 2021, Francia/Haiti

anteprima regionale
Can't Wait For You To Come, di Tomaž Grom, 2021, Slovenia
anteprima italiana. Sarà presente l'autore

Comunisti, di Davide Crudetti, 2022, Italia
anteprima regionale

Neighbour Abdi, di Douwe Dijkstra, 2022, Olanda

Abscesso, di Bianca Iatallese, 2022, Brasile
anteprima regionale

 

Venerdì 1 settembre, ore 20.30

Cesena, chiesa di San Zenone, contrada Uberti 6

Ingresso libero - posti limitati, si consiglia la prenotazione

prenotazioni.msff@gmail.com

info 3291650824


Focus FIC WALLMAPU

Culture, popoli e corti dal mondo

L'incontro tra il Malatestashort Film Festival e il Fic Wallmapu tra resistenza, identità e storie collettive.

Nell’infinità delle proposte disseminate pressoché in ogni angolo del pianeta, che animano il panorama internazionale dei festival dedicati al cinema breve, il fermento sembra ricalcare la medesima pluralità di stimoli comunicativi che contraddistingue il linguaggio dei corti.

L’universo festival si pone del resto da sempre come luogo di scambio, di trasformazione e di dialogo: l’esperienza del Fic Wallmapu (Festival Internazionale del Cinema e delle Arti indigene) rappresenta dal 2015 a Temuco (in Cile) una preziosa occasione di confronto interculturale, in cui il cortometraggio si fa espressione dell’instabilità creativa e stimolante di contesti sociali, antropologici e territoriali in fermento. L’attenzione alle popolazioni indigene e l’intento di promuovere il cinema dei “nativi” di tutto il mondo ci restituiscono coraggio, immagini ed energia. Anche questi corti si disperdono in innumerevoli direzioni e fili in una assenza – non solo geografica – di confini.

Corpi e storie trovano soprattutto grazie alla forza della forma documentaristica un linguaggio corale di riaffermazione identitaria che impedisce a questi popoli di essere oggetto di narrazioni altrui. Il cortometraggio, quindi diventa espressione di culture originali, che si impegnano a resistere al colonialismo e si configura come una vivida arma al contempo formale e performativa.
Gli esempi dei brevi documentari del Festival diventano così importanti strumenti audiovisivi di autoaffermazione (e di autorappresentazione al cinema) di un Sé collettivo.
Cile, Messico, Perù e Colombia sono i paesi dell'America Latina che ci offrono struggenti storie di determinazione di popoli, in bilico tra un riuscito sguardo antropologico condiviso dal sapore atavico e la tensione narrativa intrisa nei racconti dei singoli.
Ritratti di identità in fieri, resoconti di chiamate ancestrali, plot di marginalità, migrazioni e povertà, animazioni di una cosmogonia tutta da riscoprire e piccoli grandi racconti di comunità indigene. Questo caleidoscopio di sfumature identitarie raccoglie una sorta di sfida multiculturale e politica ed avvicina - accorciando sorprendentemente ogni confine geografico - il campionario in lotta di una straordinaria umanità.

 

Selezione dei titoli in collaborazione con Fic Wallmapu

Meli, di Ayelen Lonconao Vargas, 2020, Chile, 20’35''
Kutikamuy, di Filmaking Collective, 2021, Perù, 10’
Muu Palaa – The grandmother of the sea, di Luzbeidy Monterrosa, Olowaili Green, 2020, Colombia, 12’59''
The wait, di Celina Yunuen Manuel, 2021, Mexico, 11’41''

 


Presentazione 6° edizione cinema bazàr

Lo stupore del Cinema Bazàr al 6° MalatestaShort Film Festival
Presentazione generale dell'edizione 2022

Il MalatestaShort Film Festival, festival internazionale del cinema breve, intitola la sua sesta edizione “cinema bazàr” e propone al suo pubblico una offerta ricca di film.
Fil rouge in continuità con il lavoro degli anni scorsi alla scoperta dei tanti modi di fare cinema nel mondo è proprio la volontà di proporre una esperienza di visione dai tanti input.

Il Festival
Il Festival è una preziosa occasione per scoprire e scovare, proprio come in un bazàr, tante piccole perle di cinema. Al contempo - proprio come accade in un bazàr - al MalatestaShort Film Festival si ritrova una comunità variegata di spettatori onnivori. Il bazàr è lo stupore verso l’inatteso, la ricerca quasi casuale ed estemporanea. Il pubblico può vivere l’incertezza di cercare qualcosa, senza sapere di preciso cosa, assaporando poi la meraviglia stessa di trovarlo. Il concetto di bazàr ricalca anche le linee guida di selezione, fedeli alla scelta di mostrare e raccontare il cinema come grande congerie creativa: un miscuglio di linguaggi che porta ad esplorare strade diverse, dai sentieri della cinefilia più pura a quelli del cinema popolare, tra commistioni inaspettate di generi o espressive e proposte preziose e difficilmente definibili.

Il Concorso internazionale
Il Concorso, vero fulcro del festival, rappresenta uno sguardo internazionale sulla produzione breve e propone una selezione di opere da tutto il mondo. Tre sono le principali categorie : “Best Film” e “Best Experimental and Art Film”, la prima dedicata ai cortometraggi di fiction, ai documentari narrativi e alle opere di animazione narrativa, la seconda riservata ai lavori sperimentali di qualunque genere. Una nuova categoria aperta quest'anno è quella degli "Archive films", dedicata alle opere che meglio sanno interpretare i materiali d’archivio, sia in film totalmente d’archivio che in forma mista.
A queste si aggiunge la Categoria “Ultrashort”, sezione avviata con successo lo scorso anno e incentrata sulla sperimentazione più libera, a cui sono destinati i cortissimi entro i tre minuti e un premio speciale "Gran bazàr" alla miglior opera miscellanea (di “tutto un po’”), tra suggestioni off, trash e cinefile, stralci di reality, opere difficimente definibili, nonché piccoli tesori preziosi.

Il focus internazionale è incentrato sul cinema del Medio Oriente, con opere da diversi paesi e momenti di approfondimento.
Completano il programma focus, eventi speciali ed incontri con gli autori.